CARBOIDRATI ED INDICE GLICEMICO

Introduzione

Livia Augustin, Università di Toronto, Canada

Il termine “indice glicemico” è stato introdotto all’inizio degli anni 80 da David Jenkins, dell’Università di Toronto (Canada) (1). Si tratta di un parametro che permette di classificare i cibi ricchi in carboidrati in base al loro effetto sulla glicemia, e cioè in base alla loro capacità di modificare, dopo il consumo, i livelli di glucosio nel sangue. Un indice glicemico basso, per esempio intorno a 50, è proprio dei carboidrati a lento assorbimento, e quindi a lento rilascio di glucosio nel sangue, mentre un indice glicemico alto, sopra i 100, è indice di rapido assorbimento, e quindi di alti picchi glicemici. 
Il concetto di indice glicemico venne inizialmente sviluppato allo scopo di fornire una guida nutrizionale a coloro che sono portatori di intolleranza al glucosio, e per molti aspetti può essere considerato un’estensione dell’ipotesi di Burkitt e Trowell sulla fibra alimentare, secondo la quale il consumo di cibi ricchi di fibra, che sono digeriti più lentamente, comporta benefici metabolici importanti nella prevenzione e nel controllo del diabete e delle condizioni cliniche ad esso conseguenti. 
Contemporaneamente all’ipotesi sulla fibra, si stava sviluppando il concetto di una patologia associata all’adiposità centrale ed alla massa grassa intra-addominale accompagnata da insulino-resistenza, oggi nota come “Sindrome Metabolica”, che meglio definisce nella sua complessità il “cluster” di disturbi spesso associati al diabete. L’analogia di molte delle tematiche sviluppate partendo da questi due concetti ha permesso di attribuire alla classificazione dei cibi secondo l’indice glicemico un possibile ruolo nella prevenzione e nella terapia delle malattie cronico-degenerative associate alla sindrome metabolica, quali soprattutto l’aterosclerosi e le sue complicanze. 
Tutto questo ha promosso la ricerca nel settore, ed ha condotto alla disponibilità di tabelle riassuntive relative all’indice glicemico di diversi cibi (2).

Indice glicemico e carico glicemico

L’indice glicemico (glycemic index, o GI della letteratura anglosassone) é un indice della risposta glicemica indotta, nello stesso soggetto, da una quantità specifica di carboidrati in rapporto a un’equivalente quantità di carboidrati proveniente da un alimento standard. E’ qunidi un indice di qualita’ dei carboidrati. Formalmente, esso misura l’area sotto la curva della risposta glicemica conseguente al consumo di una quantità di carboidrati provenienti dall’alimento in esame (in genere 50 o 100 grammi) raffrontata all’area sotto la curva della risposta glicemica successiva al consumo di un alimento standard (soluzione di glucosio o pane bianco). Il rapporto viene espresso in percentuale. E’ importante sottolineare che le scale basate sul glucosio e sul pane bianco sono diverse: il glucosio, se rapportato al pane bianco, ha un indice glicemico di circa 130, ed il pane bianco, se rapportato al glucosio, di circa 75. Ogni alimento ha pertanto due valori diversi di indice glicemico a seconda se è raffrontato all’uno o all’altro standard, e per i confronti tra alimenti è essenziale adottare valori riferiti alla stessa scala (Tabella 1). 
Il carico glicemico (glycemic load, GL) è invece il prodotto dell’indice glicemico medio della dieta giornaliera per la quantità totale di carboidrati consumati in una giornata. E’ quindi un indice sia di qualita’ che di quantita’ dei carboidrati ed ha lo scopo di valutare l’effetto complessivo della dieta sulla glicemia. Ambedue questi parametri sono ormai ampiamente utilizzati negli studi epidemiologici. 
In generale, l’indice glicemico risulta direttamente correlato alla risposta insulinica; la velocità di assorbimento del carboidrato è uno dei fattori più importanti nel determinare la risposta glicemica. Altri fattori che influiscono sull’indice glicemico sono la motilità gastrointestinale, che influenza i processi digestivi e di assorbimento, i metodi di cottura dei vari cibi, la natura e la grandezza delle particelle di amido e la presenza contemporanea, nell’alimento o nel pasto, di fibra, lipidi e proteine (Tabella 2). Esistono vari metodi per ridurre la risposta glicemica, fra cui l’utilizzo dell’ indice glicemico (Tabella 3). 
Piccole quantità di grasso aggiunte al pasto, rallentando la digestione, possono per esempio alterare anche l’indice glicemico. In studi condotti aggiungendo 8-24 grammi di grasso ad un pasto misto contenente 38-104 grammi di carboidrati, in realtà, l’indice glicemico cambiava solo minimamente (3), mentre è invece noto che i cibi in cui il contenuto di grasso è elevato, come ad esempio arachidi e noci (60% grassi), riducono notevolmente l’indice glicemico (4). 
E’ interessante sottolineare che i cibi tradizionalmente consumati dalle società rurali, come i legumi, le farine integrali, l’avena e l’orzo, sono generalmente a basso indice glicemico. In particolare, un elevato consumo di cibi a basso indice glicemico era tipico di società che ora risultano ad alto rischio di diabete, come gli aborigeni australiani e Pima del Nord America, che solo recentemente hanno introdotto nella loro dieta cibi ad elevato indice glicemico.

Tabella 1 – Indice glicemico (IG) di alcuni cibi
CiboIG(pb)IG(g)
Saccarosio9267
Glucosio138100
Fruttosio3223
Miele10475
Latte3928
Fagioli40-6030-43
Lenticchie30-4022-30
Pasta50-7036-51
Pizza8662
Cornflakes100-12072-87
Pane bianco10072
Pane ‘Pumpernickel’5842
Patate12087
Banane, mature8562
Banane, verdi4331
Arance6245
Pompelmo3626
Ciliege3223
Pomodori139

IGpb : paragonato al pane bianco 
IGg : paragonato al glucosio (GIg = IGpb / 1.38)

Tabella 2 – Fattori che influenzano la glicemia e quindi l’indice glicemico (IG) dei cibi
Fattori che influenzano l’IGFattori che diminuiscono l’IGFattori che aumentano l’IG
Tipo di molecole dell’amido+ amilosio/amilopectina– amilosio/amilopectina
Tipo di monosaccaridi presentiFruttosio, galattosioGlucosio
Fibra solubile+Guar, + ß-glucani-Guar, – ß-glucani
Processi produttivi/cotturaBollitura parziale, raffreddamentoEstrusione, flaking, popping
Grandezza fisica del carboidratoGrani grossiGrani piccoli (in seguito a macinazione
Stato di maturazione e magazzinaggioPoco maturo, raffreddamentoMaturo
Inibitori dell’alfa-amilasi+ Lettine, + fitati– Leitine, – fitati
Macronutrienti+ Proteine, + grassi– Proteine, – grassi

+ = livello alto 
– = livello basso

Tabella 3. Fattori che riducono la velocita’ di assorbimento del glucosio

  • Indice glicemico basso
  • Fibra solubile (presente nell’avena, orzo, lenticchie, ceci e fagioli)
  • Aumento della frequenza dei pasti
  • Inibitori dell’amilasi (acarbosio)

Meccanismi fisiopatologici alla base dell’importanza dell’indice glicemico

Gli effetti metabolici di carboidrati con diverso indice glicemico sono conseguenti, come si ricordava, alla rispettiva velocità di assorbimento del glucosio dall’intestino tenue. Un lento assorbimento di glucosio, che segue l’assunzione di un cibo a basso indice glicemico, produrrà un ridotto aumento postprandiale di insulina e degli ormoni rilasciati dallo stomaco (per esempio le incretine). Inoltre, un prolungato assorbimento di carboidrati sopprime i livelli plasmatici degli acidi grassi liberi, ed allo stesso tempo porta a livelli più bassi il glucosio plasmatico (figura 1). Nel tempo, la riduzione dei livelli di acidi grassi liberi e l’aumento del quoziente respiratorio che consegue all’insulinizzazione dei tessuti comporta un passaggio più rapido del glucosio dal sangue ai tessuti. Di conseguenza, la concentrazione del glucosio nel sangue può ritornare a livelli basali nonostante il continuo assorbimento di glucosio da parte dell’intestino (rispecchiando l’effetto metabolico postprandiale di chi è uso ad elevato esercizio fisico). Come effetto finale, si ha una riduzione sia del picco di glucosio postprandiale, che si verifica in genere dopo 30-45 minuti nei soggetti sani, e quindi dell’area sotto la curva della glicemia (figura 1). Questo è stato dimostrato in vari studi clinici con volontari sani, cui veniva somministrata una soluzione di glucosio che veniva ingerita a velocità costante in un arco di tempo di 180 minuti oppure come “”bolo”” (5). 
Nel caso di somministrazione del glucosio in un tempo prolungato, si osservava anche una diminuita secrezione di insulina, accompagnata inoltre da una più rapida rimozione del glucosio e da una minore concentrazione di acidi grassi liberi nel sangue (Figura 2). Questo miglioramento del quadro metabolico generale, che è stato riscontrato anche con il consumo di pasti a basso indice glicemico, potrebbe essere il risultato dell’insulinizzazione dei tessuti, della soppressione della sintesi degli acidi grassi liberi e dell’assenza di una risposta endocrina controregolatoria. 
Un altro vantaggio del consumo di pasti a basso indice glicemico è una migliore tolleranza ai carboidrati durante il pasto successivo, che è stata correlata a più basse concentrazioni postprandiali di acidi grassi liberi.
Inoltre, è stato dimostrato che il consumo di pasti frequenti, che rappresenta una sorta di “”surrogato”” della lenta digestione dei cibi a basso indice glicemico, riduce la risposta glicemica e insulinica anche nei diabetici durante le 24 ore. A più lungo termine, un aumento della frequenza dei pasti è stata associata ad un cambiamento della concentrazione degli enzimi nel tessuto adiposo e ad una riduzione dei lipidi serici a digiuno. Tuttavia, per ragioni non ancora chiare, non tutti gli studi hanno portato agli stessi risultati; inoltre, l’aumentata distribuzione dei pasti non sembra essere vantaggiosa in termini di aumentato effetto termogenico del cibo, che in teoria dovrebbe favorire la perdita di peso corporeo.

Effetti dell’indice glicemico nei soggetti sani ed in pazienti con specifiche patologie

Nelle persone sane, l’adozione di diete a basso indice glicemico ha un effetto minimo nel breve periodo, forse dovuto ad un adattamento dell’intestino. Il quadro cambia nei pazienti portatori di specifiche patologie. Infatti, degli studi clinici a medio termine (da 2 settimane a 6 mesi) condotti nei diabetici di tipo 1 e 2, una netta maggioranza ha dimostrato un miglioramento dei markers del controllo glicemico (in particolare dei livelli delle proteine glicate) con diete a basso indice glicemico. In uno di questi studi è stato anche osservato un ridotto livello plasmatico dell’inibitore dell’attivatore plasminogeno (6), indice di un migliorato profilo fibrinolitico.
Le diete ad elevato contenuto di carboidrati sono state criticate negli ultimi anni in quanto, se paragonate a diete isocaloriche ad alto tenore di grassi monoinsaturi, possono aumentare i livelli ematici di glucosio e trigliceridi e ridurre il colesterolo HDL. Tuttavia, in questi studi clinici le diete ricche di carboidratierano principalmente composte da carboidrati a veloce assorbimento, e quindi ad elevato indice glicemico: osservando invece i risultati degli studi con diete ricche di carboidrati ma a basso indice glicemico si può notare un miglioramento del controllo glicemico rappresentato in figura 3 dalla diminuzione delle proteine glicate.  Inoltre almeno 10 su 11 studi riguardanti l’effetto dell’indice glicemico sui lipidi hanno dimostrato una riduzione del 9% dei trigliceridi con diete a basso indice glicemico, di cui uno studio ha dimostrato anche un aumento del 5% del colesterolo HDL (7).

Studi epidemiologici

Due studi epidemiologici hanno dimostrato l’esistenza di una correlazione inversa tra l’indice glicemico della dieta ed il valore della colesterolemia HDL (8,9), suggerendo che diete a basso indice glicemico potrebbero mantenere alti i livelli plasmatici di colesterolo HDL ed in tal modo contribuire ad una diminuzione del rischio cardiovascolare. Nel Nurses’ Health Study, inoltre, si è osservata una relazione inversa fra indice glicemico della dieta ed il rischio di infarto miocardico fatale e non fatale (10). Di particolare interesse è l’osservazione che l’associazione tra indice glicemico e malattia cardiovascolare è particolarmente evidente nei soggetti sovrappeso e obesi: questo risultato suggerisce che l’indice glicemico potrebbe essere più importante, sul piano prognostico, nelle persone con insulino-resistenza. Nello studio di Zutphen, condotto su una popolazione di soggetti anziani, l’associazione tra indice glicemico e malattia cardiovascolare non è invece risultata significativa (11). In questo studio, tuttavia, il numero relativamente piccolo dei partecipanti (50 volte inferiore a quello delle infermiere statunitensi) e l’età relativamente avanzata dei soggetti (65-84 anni), potrebbe in parte spiegare i risultati negativi. Inoltre, al momento dell’analisi, molti soggetti che facevano parte della coorte iniziale erano morti o erano stati esclusi perché affetti da diabete o da malattie cardiovascolari: pertanto, la popolazione rimasta era “preselezionata” e poteva essere meno sensibile a fattori ambientali quali la dieta.
Due ampi studi epidemiologici, il Nurses’ Health Study (12) e l’Health Professionals Study (13), hanno dimostrato l’esistenza di un’associazione inversa fra l’indice glicemico e il rischio di sviluppare la malattia diabetica, mentre lo Iowa Women’s Health Study, pure condotto negli Stati Uniti, non ha mostrato una significativa correlazione tra questi parametri (14). Anche in questo caso la popolazione dell’Iowa Study era più anziana se confrontata con quella del Nurses’ Health Study.
L’indice glicemico sembra avere un ruolo anche nella prevenzione di alcuni tipi di tumori dipendenti dalla dieta, come il tumore al colon ed alla mammella (15,16). Il meccanismo protettivo potrebbe essere legato alla variazione dei livelli di insulina. I soggetti affetti da malattie caratterizzate da iperinsulinemia, come il diabete nei suoi stadi iniziali e l’obesità, sono infatti a più alto rischio di incorrere in patologie tumorali rispetto alla popolazione sana. Inoltre, cibi ad elevato indice glicemico producono livelli più alti di glucosio, insulina ed IGF (insulin-like growth factors), che in vari studi sperimentali ed epidemiologici sono correlati direttamente con lo sviluppo di malattie neoplastiche. In questo discorso potrebbero rientrare anche il tumore alla prostata, all’ovaio ed endometrio, poiché anche in questi casi l’iperinsulinemia e l’IGF sembrano essere fattori di rischio.

Dubbi sull’utilità dell’indice glicemico

Alcuni autori hanno sollevato dubbi o perplessità sulla reale utilità clinica dell’indice glicemico in quanto sostengono che le differenze di indice glicemico fra i vari cibi scompaiono in un pasto misto. Parte del problema è dovuto al fatto che in un pasto ricco di carboidrati l’effetto dei cibi a basso indice glicemico viene diluito dalla quantità di carboidrati totali del pasto. Quindi se i cibi a basso indice glicemico sono in minoranza rispetto a quelli ad alto indice glicemico l’effetto viene meno. È anche stato detto che l’indice glicemico aggiunge complicazioni e restrizioni inutili alla dieta, non giustificate dai potenziali benefici. Sulla base dei dati epidemiologici prima descritti una tale posizione non appare giustificata; inoltre, su un piano strettamente “”culturale”” l’indice glicemico può anche essere considerato come un mezzo per allertare i consumatori sulle differenze nutrizionali tra i vari carboidrati, sottolineando l’esistenza di prodotti che altrimenti essi non avrebbero preso in considerazione (per esempio alcuni dei cosiddetti “functional foods”) o la rivalutazione di prodotti classici della tradizione alimentare, coma la pasta di grano duro, le cui valenze nutrizionali forse non sono del tutto apprezzate nemmeno nelle aree di produzione e di consumo. 
È anche vero che è necessario possedere un certo grado di conoscenze dietetiche per capire e applicare il concetto di indice glicemico in modo adeguato. Per esempio le carote, che risultano avere un elevato indice glicemico, vengono in genere consumate in quantità modeste, tali da non produrre un’elevato carico glicemico totale. Inoltre, esse contengono molte altre sostanze (vitamine, minerali e fibra) che possono svolgere effetti favorevoli sulla salute. Pertanto, cibi come le carote, con un apparente elevato indice glicemico ma con basso tenore calorico e ricchi di micronutrienti, non vanno necessariamente evitati.

Nuovi aspetti relativi all’indice glicemico

Attualmente vi è un certo interesse nello studio della relazione fra insulino-resistenza, stress ossidativo (produzione di reactive oxygen species, o ROS) e produzione di citochine proinfiammatorie e proteine di fase acuta (acute phase proteins) come la C-reactive protein (CRP), considerate marker di malattie croniche come le cardiopatie. L’indice glicemico potrebbe avere un ruolo in questa sequenza di eventi. Infatti, studi recenti hanno dimostrato che l’aumento del glucosio postprandiale è associato alla riduzione degli antiossidanti serici, inclusi licopeni e vitamina E.  Quindi potrebbe essere plausibile ipotizzare che  più alta è la glicemia più bassi sono i livelli di antiossidanti. Inoltre, si è visto che la somministrazione di antiossidanti come la vitamina E con la dieta migliora il controllo della glicemia. Da questi studi si può ipotizzare un possibile ruolo delle diete a basso indice glicemico nella riduzione dei danni da stress ossidativo.
Inoltre l’indice glicemico potrebbe avere un ruolo importante anche nel controllo del peso corporeo (17). In uno studio in acuto condotto su bambini obesi è stato dimostrato che, a parità di calorie, i cibi a più basso indice glicemico consumati a colazione riducono maggiormente l’appetito durante un secondo pasto (18). Tuttavia, sono necessari studi a più lungo termine per confermare questi risultati. 

Conclusioni

L’indice glicemico permette una migliore classificazione dei carboidrati alimentari, classificazione dipendente dall’effetto fisiologico piu’ che dalla struttura chimica del carboidrato. Anche se la valutazione dei carboidrati in termini di indice glicemico, in sostituzione alla vecchia classificazione in “”semplici”” o “”complessi”” (basata unicamente sulla lunghezza della molecola dell’amido), implica un più elevato livello di complessità nella gestione delle raccomandazioni dietetiche ai soggetti sani o ai portatori di specifiche patologie, la maggior parte degli autori ritiene che l’incorporazione di tale parametro nella pratica clinica comporterebbe un sensibile miglioramento delle conseguenze preventive o terapeutiche di tali interventi. 
Ulteriori studi sono comunque necessari per meglio comprendere la relazione fra indice glicemico e malattie croniche quali il diabete, l’aterosclerosi ed i tumori.

Bibliografia

1. Jenkins DJ, Wolever TM, Taylor RH, et al. Glycemic index of foods: a physiological basis for carbohydrate exchange. Am J Clin Nutr 1981;34:362-6.

2. Foster-Powell K, Holt SH, Brand-Miller JC. International tables of glycemic index and glycemic load values. Am J Clin Nutr 2002;76:5-56.

3. Wolever TM, Bolognesi C. Prediction of glucose and insulin responses of normal subjects after consuming mixed meals varying in energy, protein, fat, carbohydrate and glycemic index. J Nutr 1996;126:2807-12.4. Wolever TMS, Katzman-Relle L, Jenkins AL, Vuksan V, Josse RG, Jenkins DJA. Glycaemic index of 102 complex carbohydrate foods in patients with diabetes. Nutr Res 1994;14:651-669.

5. Jenkins DJ, Wolever TM, Ocana AM, et al. Metabolic effects of reducing rate of glucose ingestion by single bolus versus continuous sipping. Diabetes 1990;39:775-81.

6. Järvi AE, Karlström BE, Granfeldt YE, Björck IE, Asp NG, Vessby BO. Improved glycemic control and lipid profile and normalized fibrinolyof satiety was directly related to the acetic acid level. Compared with the reference meal, the highest level of vinegar significantly lowered the blood glucose response at 30 and 45 min, the insulin response at 15 and 30 min as well as increased the satiety score at 30, 90 and 120 min postprandially. The low and intermediate levels of vinegar also lowered the 30 min glucose and the 15 min insulin responses significantly compared with the reference meal. When GI and II (insulinaemic indices) were calculated using the 90 min incremental area, a significant lowering was found for the highest amount of acetic acid, although the corresponding values calculated at 120 min did not differ from the reference meal. CONCLUSION: Supplementation of a meal based on white wheat bread with vinegar reduced postprandial responses of blood glucose and insulin, and increased the subjective rating of satiety. There was an inverse dose-response relation between the level of acetic acid and glucose and insulin responses and a linear dose-response relation between acetic acid and satiety rating. The results indicate an interesting potential of fermented and pickled products containing acetic acid.mins B-12 and B-6 are inversely associated with serum total homocysteine concentration. Effetti antiossidanti del melograno Effects of pomegranate juice consumption on myocardial perfusion in patients with coronary heart disease. Il succo di melograno contiene sostanze antiossidanti come polifenoli, tannini e antocianine: può pertanto presentare proprietà antiaterosclerotiche. In questo studio sono stati valutati tali benefici su pazienti che presentavano cardiopatie di tipo ischemico. Un campione di 45 soggetti affetti da coronaropatia o ischemia del miocardio ha assunto per tre mesi 240 mL al giorno di succo di melograno oppure un placebo in uno studio controllato in doppio cieco. Dopo tre mesi, chi aveva assunto il succo di melograno presentava una riduzione dell’ischemica indotta da stress, valutata mediante scin 2000;58:163-9. 

18. Ludwig DS, Majzoub JA, Al-Zahrani A, Dallal GE, Blanco I, Roberts SB. High glycemic index foods, overeating, and obesity. Pediatrics 1999;103:E26.